UN SOGNO DI MEZZA …ALTEZZA
Mario guardava il biglietto aereo che aveva in mano: un piccolo pezzetto di carta dove erano stampati il suo nome e il suo cognome, il numero del volo e la destinazione.
Ma c’erano stampati, anche se nessuno poteva vederli, 5 anni di rinunce e sacrifici. Era riuscito a risparmiare 10 euro al mese dalla sua pensione sociale, e in 5 anni era riuscito a racimolare quanto serviva per il costo del volo e per una notte in albergo. Non era stato poi così difficile, era riuscito ad imbrogliare se stesso e il suo appetito. Invece di comprare un Kg di frutta ne comprava 8 etti e metteva la differenza in un grande barattolo colorato, così come erano colorati i suoi sogni. Al posto della carne comprava le patate, il più grandi possibili, le tagliava a fette in verticale e le disponeva nel piatto come se fossero una fettina di pollo, non di vitella perché non era ancora riuscito a trovare il modo di imbrogliare se stesso sul colore.
Anche sulla pizza, che qualche rara volta si concedeva, aveva ideato il suo imbroglio, prendeva la versione mignon che fanno per i bambini.
Ma adesso il ricordo di questi sacrifici era scomparso, gli rimaneva in mano solo quel biglietto, così chiuse la sua piccola valigia e si avviò alla fermata della corriera che lo avrebbe portato all’aeroporto e dall’aeroporto sarebbe atterrato nella città più vicina al monte Rosa dove gli avevano assicurato che era raggiungibile la postazione più alta che potesse trovare.
La corriera, un pullman come tanti altri, un ostacolo come tanti altri, i gradini per salire erano stati all’inizio una meta insormontabile, ma poi come sempre aveva imparato il trucco: con una mano si afferrava alla sbarra e con l’altra si appoggiava al gradino superiore, un secondo per trattenere il fiato e prendere lo slancio e poi con un salto a gambe unite riusciva ad arrivare di fronte al conducente che lo guardava sbalordito, come se l’insolito fosse Lui e non quel gradino così alto e antipatico.
‹‹mezzo biglietto, grazie››
‹‹Come mezzo biglietto non si può, non è regolare›› rispondeva il conducente.
Ma Mario imperterrito spiegava che Lui rispetto ad uno normale, occupava mezzo posto e quindi era giusto che pagasse mezzo biglietto.
Il risparmio di decine di mezzi biglietti erano finiti nel suo barattolo colorato e avevano contribuito a realizzare il suo sogno.
Ma non ci sarebbe mai riuscito se non gli fosse venuta una idea geniale. Era partito dal presupposto, che se gli uomini normali sono degli stupidi idioti, è giusto che paghino per la loro idiozia.
Tutto era cominciato quando era più giovane, quando il suo cuore palpitava di amore come quello delle persone normali, il suo non era un cuore nano ma solo un cuore, e quella ragazza con gli occhi blu che gli si era avvicinata con un sorriso tenero e intrigante gli era sembrata la creatura più bella che avesse mai visto. Anche lui gli aveva sorriso, e con gli occhi lucidi di gioia aveva teso la mano per presentarsi, e dirle il suo nome un nome normale senza etichetta, non Mario il nano, ma solo Mario, lei lo aveva guardato e sorridendo gli aveva sussurrato arrossendo se poteva chiedergli un piacere. Mario gli aveva risposto che poteva chiedergliene anche dieci e aveva aspettato che lei parlasse. E lei parlò. Gli chiese se poteva toccargli la gobbetta perché doveva dare un esame e voleva assicurarsi un po’ di fortuna.
Che gentile, che era stata, aveva usato un vezzeggiativo e gobbetta sembrava più simpatico di gobba.
A quella richiesta anche il cuore di Mario era diventato un cuore nano, si era ristretto, diventando piccolo piccolo, così piccolo che l’amore non vi aveva più trovato posto. Da quel giorno ogni volta che gli chiedevano di toccare la sua gobbetta, rispondeva di sì, ma aggiungeva che per portare veramente fortuna dovevano consegnarli un euro, quale pedaggio simbolico per entrare nella corsia preferenziale della fortuna, e gli idioti normali accettavano ben volentieri di pagare il pedaggio, convinti così che la fortuna si sarebbe tolta la benda e avrebbe volto il suo sguardo verso di loro.
Era ormai l’imbrunire quando la corriera si fermò al capolinea: Mario era arrivato, il suo sogno era lì a portata di mano, ancora una notte e poi si sarebbe realizzato.
Si avviò piano piano verso l’albergo, l’ultimo ostacolo e poi la felicità.
“Buongiorno, sono Mario Guantini ho prenotato una camera singola”.
Il portiere guardò verso il basso:
“ Ciao piccolo, come mai sei solo? Dove sono i tuoi genitori ? Se ti sei perso li possiamo chiamare con l’altoparlante”.
Mario sollevò lo sguardo verso il portiere, uno sguardo cupo, stanco pieno di rughe e ogni ruga era una risposta ai cento portiere che per tutta la sua vita lo avevano perseguitato.
“i miei genitori sono morti tanti anni fa, non hanno retto al dispiacere quando hanno scoperto che non ero un “piccolo” ma solo un nano, prego mi dia la chiave della camera, e anche in fretta perché sono stanco”.
La camera era al terzo piano, e Mario sapeva già che non avrebbe potuto prendere l’ascensore perché i tasti erano per lui irraggiungibili, e così si avviò per le scale con la sua valigetta e la sua gobbetta, tre piani non sono poi così tanti, gli sarebbero costati un po’ di fiatone, ma almeno non doveva chiedere nessun piacere a nessuno.
La camera era come al solito una camera normo-dotata: un letto grande e alto, un bagno con le manopole per la doccia ad altezza d’uomo e non di nano, e uno specchio che nel suo caso assolveva al compito per un terzo della sua estensione, riusciva infatti a riflettere la sua immagine solo dal naso in su.
Mario si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi, avrebbe voluto chiudere anche il cuore e impedire alla mente di ricordare. I suoi erano solo ricordi di dolore e ogni volta le lacrime scendevano copiose e quando era sdraiato scivolavano giù fino all’orribile gobba, no non era una gobbetta, non era una cosa simpatica, era una cosa orribile che spuntava dallo specchio quando lui lo guardava e gli sussurrava: “ lo so caro Mario che vorresti dimenticare, ma io sono qui, perché sei un nano, un brutto nano e nessuno al mondo ti vuole bene e mai nessuno te ne vorrà.”
Piangi Mario perché è l’unica cosa normale che puoi fare, tutto il resto ti è negato, la vita, quella meravigliosa vita a te non è mai stata svelata, non sai cos’è l’amore, nessuna donna ti ha mai amato, non sai cos’è l’amicizia nessuno ti è mai stato amico, neanche quando eri piccolo e gli altri bimbi erano poco più alti di te.
Ma tu non eri come loro, avevi la tua gobbetta, ed eri già un bimbo infelice, e lo strazio dell’anima aumentava quando, giocando a girotondo, ti mettevano al centro e cantavano :
“ Mario il nano, Mario il nano, afferrati la mano, girala intorno al naso, toccati la gobba e salta giù per terra”.
Era una cantilena assordante, Mario aveva provato a mettere le mani sulle orecchie per non sentire, ma era inutile, loro gridavano sempre più forte, e poi ridevano quando lui per farli smettere, cercava di toccarsi la gobba.
E così aspettava con ansia, che suonasse la campanella per rientrare a casa, la sua casa, dove però non c’era nulla, né affetto né amore, ma solo vergogna, e anche se era ancora un bambino, il suo piccolo cuore aveva capito che suo padre si vergognava di lui, il suo tono era sempre freddo e distante, e ogni volta che lo guardava sembrava dirgli che non poteva essere suo figlio perché lui era alto un metro e novanta e la sua schiena sembrava incisa nella pietra: liscia, muscolosa, perfetta, non c’erano gobbe.
Anche la sua mamma lo aveva tradito, troppo innamorata di quel marito, doveva cancellare la colpa di avergli dato un figlio nano.
Mamma, sussurrava piano Mario con gli occhi pieni di lacrime, apri le tue braccia a questo figlio, bacia la sua fronte, digli che gli vuoi bene, ma lei muta, non ascoltava e teneva le braccia incrociate per coprire quel suo cuore, dove l’amore per lui non esisteva. Povero Mario, ripeteva a se stesso, nessuno ti ha mai voluto bene e mai nessuno te ne vorrà.
Ma tutto questo adesso non importava più, il suo sogno si era avverato, era riuscito ad arrivare in cima alla montagna. Era sceso dalla cabina della funivia e si era avviato piano piano, verso le nuvole. Non le aveva mai viste così da vicino, così soffici, così tenere, qualcuna assomigliava alla sua gobbetta. Gli sembrava di poterle toccare, e il suo braccio non era più così corto. Tutto aveva preso una dimensione diversa. Adesso era lui alto e le cose sotto di lui erano piccole piccole, non aveva mai provato questa sensazione, si sentiva pervadere da brividi caldi e le emozioni dentro il suo cuore erano una melodia che non aveva mai udito in tutta la sua vita: erano le note della felicità, quella felicità che la crudeltà degli uomini gli aveva negato.
Mario il nano adesso era alto, più alto di tutto, le lacrime scendevano copiose su quel viso pieno di rughe, Mario il nano era finalmente felice lontano dalla cattiveria degli uomini, lontano da tutti quelli che non avevano mai voluto guardare dentro di lui e donare a quel cuore, solo e dolorante, una nota d’amore, e Mario comprese che non poteva tornare ad essere nano.
Sapeva che non sarebbe mai più riuscito ad affrontare l’ironia e il disprezzo, sapeva che non poteva invocare ancora una carezza che non sarebbe mai arrivata.
Così, volse lo sguardo verso quel cielo infinito e immenso, protese le braccia verso quella fonte di amore e senza guardare e senza pensare avanzò di un passo, e poi di un altro passo ancora, scivolando così nel vuoto.
Adesso finalmente Lui era solo Mario.