isabella luconi
isabella luconi

Isabella bambina, con il suo Papà DINO

ERI IL MIO PAPÀ, SOLO MIO, TUTTO MIO

 

 

Avevo provato tante volte a cercare di descrivere con le parole quella tristezza che sentivo dentro il cuore, ma non ci sono mai riuscita.

Oh papà come è possibile, continuo a cercati in queste vecchie fotografie, ma non ti trovo più, te ne sei andato in silenzio e adesso quelle parole figlie dell’emozione, rimangono mute e incapaci di esprime il mio dolore.

 

Continuo a ricordarti così come appari in quelle fotografie, sempre con quel sorriso che illuminava i tuoi occhi buoni, eri il mio papà, solo mio, tutto mio e il mondo non mi faceva paura, perché c’eri tu e io non avevo bisogno di altro.

Ma adesso tutto questo non c’è più e io posso solo chiudere gli occhi per lasciare che i ricordi occupino lo spazio del mio dolore, ricordi di una infanzia serena, con te che mi prendevi per mano e guidavi i miei passi verso il sentiero della vita.

 

Ricordi papà? Ero una piccola bimba quando tu mi prendevi in braccio, poi sono cresciuta, ribelle e testarda, una sfida continua contro il mondo, contro le ingiustizie, a volte anche contro di te ma tu con la saggezza che guidava la tua anima buona, sei stato capace di non raccogliere quella sfida e con la certezza delle tue sicurezze hai impedito alla bimba adolescente di perdersi nei bui sentieri della disperazione

 

Eri forte, eri il mio papà, solo mio, tutto mio.

Poi senza che la mia anima fosse pronta, per la prima volta ho intravisto la tua fragilità di uomo, la testa appoggiata al vetro della finestra, io che ti salutavo felice, la cerimonia del matrimonio si era appena conclusa, e io ero pronta a partire, lontano da te, con un altro uomo, al quale tu mi avevi affidato, ma pronto a riprendermi se lui mi avesse fatto del male.

 

Però piangevi dietro quel vetro, eri solo e così teneramente fragile nell’esprimere quel sentimento che quasi avrei voluto tornare indietro e rimanerti accanto per sempre, ma non era questo il percorso giusto della vita, e così entrambi abbiamo dovuto accettare quella separazione.

 

E la favola della vita sarebbe dovuta continuare in questo modo.

C’è un tempo per vivere e c’è un tempo per morire ma non c’è un tempo per diventare un’altra persona, che più nessuno conosce e riconosce.

 

Ricordi papà? Hai iniziato con il non trovare più le chiavi della tua casa, che avevi appena messo in tasca, poi gli occhiali, che erano invece sempre lì, appesi al tuo collo e che non trovavi, hai iniziato a dire una frase e poi a fermarti di colpo perché non ricordavi quello che volevi dire.

 

Poi improvvisamente sembrava che tutto questo non fosse avvenuto e ridevi e mi abbracciavi, e poi di nuovo quelle chiavi che sparivano quegli occhiali che non si trovavano e io ti prendevo la mano ti abbracciavo e in quell’abbraccio cercavo disperatamente di ritrovare il mio papà.

 

Ma il mio papà, solo mio, tutto mio, non c’era più.

Poi quella telefonata, ricordi papà? Mia madre, per dirmi che non ce la faceva più, che eri diventato un bimbo bizzarro, che ti alzavi di notte e volevi uscire, che lasciavi il gas aperto, non era più possibile tenerti in casa.

 

E così, per colpa di tutti e di nessuno, hai lasciato la tua casa, i tuoi amici, i tuoi ricordi, la tua vita felice e serena.

 

Ma la nuova casa era buia, triste e senza anima, non c’era nessuno che ti accarezzasse il viso, che avesse tempo per ascoltare i tuoi ricordi, che uscivano confusi dalle tue labbra, potevi solo rimanere lì, seduto tutto il giorno in una poltrona, lo sguardo lontano, senza anima, tu che avevi amato il mondo, eri ormai perso e solo.

 

Ricordi papà, quando ero seduta vicino a te, sulla sedia vicino a quella poltrona, mi guardavi corrugando la fronte, era uno sforzo enorme quello che cercavi di fare, ma mai, e poi mai hai dimenticato il mio nome, ero tua solo tua, e tu eri il mio papà solo mio, anche se seduto su quella poltrona in quella stanza così triste e così buia.

 

E una notte, una delle tante notti che hai passato da solo, ti sei sentito male, tanto male. Lo squillo del telefono, l’ansia, l’angoscia di non fare in tempo, la corsa all’ospedale, l’attesa senza conforto, la paura di non vederti più.

Tante ore ad aspettare, aspettare di sapere, e poi sapere dal medico di guardia che ti dovevano ricoverare per tenerti sotto controllo e capire che cosa avevi avuto.

 

Le ruote della barella hanno in fretta sciolto l’abbraccio che a te mi legava, ti stavano portando via da me, e una lacrima scivolò senza rumore dalla tua guancia, e birichina bagnò la mia mano che stringeva la tua.

 

“Ciao papà, vengo domani stai tranquillo, cerca di dormire.” L’attimo di lucidità colto nel tuo sguardo che subito spariva nel vuoto, permise al mio cuore di non sentire il rimorso di lasciarti solo.

E venne il mattino, era domenica, un giorno di festa, il giorno dedicato al Signore, il giorno in cui tutti pensiamo di essere più buoni, ma dov’ è finita quella bontà, quando non esiste più neanche la pietà, quella pietà che lenisce la sofferenza e restituisce ad un uomo la sua dignità.

 

Ma a te quella dignità era stata rubata, eri in mezzo al corridoio, non c’era posto in corsia, seminudo, con un lenzuolo che ti legava stretto stretto alle sponde del letto, sporco perché nessuno aveva avuto pietà, nessuna mano cortese ti aveva accarezzato e lavato.

 

Mi hai guardato negli occhi ma non mi vedevi più, non mi riconoscevi più, cercavi solo di toglierti quel lenzuolo, non ci riuscivi, non capivi, ti agitavi, mentre io mi chiedevo perché la vita avesse reso quell’uomo forte e buono, così fragile, tanto fragile da finire in mezzo ad un corridoio, senza pietà, senza umanità, ti ho accarezzato il viso sussurrandoti piano, parole d’amore.

 

Ma non capivi, non mi riconoscevi, cercavi di allontanarmi, non volevi che passassi la spugna per lavarti, non volevi indossare il pigiama pulito, non volevi sederti, ma alla fine forse il cuore ha capito ciò che la mente non comprendeva più e ti sei seduto, buono buono, su una seggiola. Ci hanno portato il pranzo e mentre una lacrima scendeva silente e lieve dal mio viso, ho preso il cucchiaio, ho raccolto su di esso un po’ di minestra e l’ho avvicinato alle tue labbra, con lo stesso gesto con il quale tu lo facevi con me quando ero piccola.

 

E davanti a quel gesto hai sollevato gli occhi mi hai guardato e all’improvviso quello sguardo è diventato come una luce, serena, dolce infinitamente buona, attraverso di esso ho visto la tua anima ed è stata lei a parlare alla mia, mentre il tuo viso si è disteso in un sorriso che racchiudeva tutta la bontà del tuo cuore. E’ stato un attimo, solo un attimo ma in quell’attimo c’era tutto il perché della vita, c’era la vita, e anche se eri diventato così fragile, eri il mio papà, solo mio, tutto mio.

 

Con quello sguardo mi hai ancora una volta insegnato qualcosa, mi hai insegnato a cercare negli uomini la loro fragilità, la loro sofferenza, hai dato un senso diverso alla mia vita.

 

Tu sarai sempre il mio papà, solo mio, tutto mio, ma regalerò il tuo sorriso a tutte le persone che soffrono e non capiscono perché sono diventate così fragili, da non riuscire più neanche a sorridere.

 

Ciao papà

dedicato a Isabella

Questo sito è dedicato alla memoria di Isabella Luconi, nata a Messina il 20 Agosto 1957, morta a Cagliari il 15 Maggio 2012. 

 

Isabella, trasferitasi nel 1972 a Cagliari da Ancona, città di origine della sua famiglia, si è diplomata al liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari.

 

Ha conseguito il diploma di Assistente Sociale nel 1990 a Cagliari, la laurea in Scienze Sociali a Trieste nel 2004, e la laurea in Scienze Politiche a Cagliari nel 2011.

 

Ha partecipato a alcuni concorsi letterari, in Sardegna e nella Penisola, classificandosi sempre nelle prime posizioni.

 

Impegnata politicamente dall’età di 14 anni, ha militato nel Fronte della Gioventù, nel M.S.I.-D.N. e in Alleanza Nazionale.

 

E’ stata Assistente Sociale nel Comune di Assemini dal 1992.

Sposata nel 1979 con Roberto Aledda, hanno avuto un figlio, Marco.

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© Roberto Aledda robertoaledda@tiscali.it