isabella luconi
isabella luconi

CARO FIGLIO MIO…

 

Quello che più lo spaventava nell’entrare in quella stanza, che era stata lo studio di suo padre, era il silenzio. Quel silenzio pieno di parole non dette, di sentimenti non espressi, di carezze taciute e sempre desiderate.

 

Roberto aveva paura di quel silenzio, paura di doverlo riempire di contenuti, paura di dover giustificare se stesso, perché solo così avrebbe potuto dimenticare.

 

Ma non poteva non fare quello che suo padre gli aveva chiesto. Era stata la sua ultima accorata richiesta, accompagnata da quella mano ormai senza forza che si era stretta sul suo braccio.

 

Quegli occhi azzurri spalancati sull’eternità, avevano per un istante ripreso il colore dell’umano e in una supplica che gli era arrivata dritta al cuore, suo padre gli aveva chiesto di aprire il cassetto della sua scrivania e leggere la lettera che gli aveva scritto e che non aveva mai trovato il coraggio di consegnargli.

“ Ti prego Roberto non dimenticartelo.”

 

Poi la stretta si era allentata, gli occhi si erano volti verso i segreti dell’infinito, l’ultimo respiro aveva disegnato un sorriso sul suo volto pieno di rughe, e improvvisamente Roberto era rimasto solo.

Solo con la sua disperazione, solo, senza amici e senza amore, solo senza quella mamma che se ne era andata quando lui era piccolo, solo senza più quel padre, che nel silenzio della sua vita, aveva rappresentato quella coscienza che lui aveva negato.

 

Solo, non avrebbe più dovuto nascondere quel braccio segnato da tanti piccoli buchi, che disegnavano la rete della sua anima lacerata.

 

E il cassetto adesso era lì chiuso, come chiuso era il suo cuore. Lui non aveva più né un cuore né un anima, ma solo una siringa come compagna.

 

Lentamente, come quando accendeva la fiamma sotto il cucchiaio, aprì il cassetto, e prese in mano la busta.

 

Suo padre non l’aveva chiusa, come se sperasse che le parole potessero uscire da sole e raggiungere quel figlio perso nel buio della disperazione.

 

E ora quelle parole erano lì davanti a Lui, senza più scampo, senza più possibilità di nasconderle e così Roberto iniziò a leggere:

 

“Caro figlio mio

non ho case, né terreni, né soldi da lasciarti in eredità. Ho solo la mia vita e i miei ricordi, che oggi seduto a questa scrivania aspettando il tuo rientro voglio raccontarti, per donarti quello che io credo sia la ragione per la quale la vita di un uomo diventi degna di essere vissuta.

 

 

15 gennaio 1944

Faceva così freddo in quell’ angolo sperduto della montagna che anche la paura di morire era diventata un’amica con cui scaldarsi.

 

Di tutto il battaglione eravamo rimasti solo in 10, dieci anime rattrappite, che non sapevano perché erano lì, chi era il nemico che dovevano combattere, e quale era la Patria che dovevano difendere.

 

Fino a pochi mesi prima, quel suolo che tanto avevo amato era la mia Patria, adesso mi avevano detto che lì c’erano i fascisti insieme con i tedeschi e che loro non erano Italiani, ma il nemico da uccidere.

 

Dio santo, erano i miei fratelli, avevamo marciato insieme, cantato le canzoni del nostro reggimento, e condiviso le donne, quando la nostalgia di casa era troppo forte per rimanere soli. Come mi si poteva chiedere di ucciderli, erano uguali a me, con il mio stesso sangue i miei stessi ricordi, la mia stessa lingua, e come potevo credere che anche loro sarebbero stati capaci di imbracciare il fucile, il mio stesso fucile, ed uccidermi. Era una guerra tra fratelli, una sporca guerra, che ha segnato tutta la mia vita.

 

La libertà per la quale ho combattuto e creduto è stata conquistata con un bagno di sangue che ha reso tutti noi complici e colpevoli davanti a Dio di esserci uccisi tra fratelli, non mi era bastato chiamarli fascisti per non pensare che fra di loro c’erano anche i miei amici.

 

Il giorno prima nel giro di ricognizione ne avevamo trovato uno, semisepolto nella neve, nudo, con un cartello appeso al collo, sopra c’era scritto “ fascista bastardo ”. Doveva avere appena sedici anni e gli occhi azzurri erano rimasti spalancati, come zaffiri splendenti, per non perdersi nel buio dell’ eternità.

Mi ero avvicinato per chiudere quegli occhi, in un gesto che era solo di umana pietà. Il mio comandante mi afferrò per le spalle e senza guardarmi mi disse:

“ Fermo, non farlo, i partigiani hanno dato ordine di lasciarli dove sono, perché tutti possano vederlo”

“ Ma Sig. Capitano è un ragazzino ”

“ No, non è un ragazzino, è un fascista, vieni via”.

 

Obbedii a malincuore a quell’ordine dato a malincuore.

Il capitano Radelli era un uomo buono, forte e coraggioso come solo gli uomini nati e cresciuti in montagna sanno essere.

 

Non avevamo più voglia di parlare, sembrava che tutto fosse diventato di ghiaccio, le mani, i piedi, il volto, freddi come i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Improvvisamente davanti a noi apparve una fila di alberi, e dietro ogni albero c’era un soldato, un nemico che come noi cercava altri nemici contro cui scaricare il suo fucile, il suo odio la sua rabbia. Mi sembrava che più niente avesse un senso, neanche quelle parole che mi avevano riempito per tanti anni il cuore:

Patria, onore, libertà, coraggio, ma quale patria, quale onore quale coraggio sembrava tutto senza senso, mentre l’unica cosa importante era rimanere in vita e la vita così intesa è solo egoismo.

 

“ Presto al riparo, muovetevi raggiungete quelle rocce,”

Il Capitano si era girato verso di noi, per indicarci dove andare, aveva spalancato entrambe le braccia e si era sollevato per farci scudo con il suo corpo mentre decine di pallottole perforavano quel corpo forte e robusto, così come le spine avevano perforato il capo di Gesù.

 

Ci fece guadagnare dei secondi preziosi prima di cadere in ginocchio, sulla neve, con il sorriso sulle labbra quando vide che eravamo tutti al riparo dietro le rocce, e con gli occhi ci mandò un ultimo saluto prima di cadere con il volto sulla neve.

 

Vedi Roberto, se sono tornato a casa, se ho incontrato e amato la tua mamma e se da quell’amore sei nato tu, lo devo solo a quell’eroico Capitano, che offrì la sua vita per salvare quella dei suoi soldati.

 

Tanti sono stati i Capitani Radelli, tanti i soldati che, in quella guerra hanno offerta la loro vita per salvare quella degli atri.

 

Tutti li chiamano Eroi. Ma non sono eroi, sono uomini, uomini uguali agli altri, ma che hanno capito che cos’è veramente la vita.

 

La vita Roberto è un dono prezioso, e non abbiamo fatto nulla per meritarla quando ci è stata donata, in quel primo battito fuori dal grembo materno.

 

Ma dobbiamo vivere da uomini per poterla meritare e vivere da uomini significa credere in tutto ciò che rende l’uomo qualcosa di speciale e diverso dalle altre creature che abitano il mondo.

 

La Patria Roberto, è una cosa speciale e la nostra patria è l’Italia, il suo tricolore, la sua gente, il suo profumo di mare, è quel pezzo di terra che calpestiamo da vivi e sotto la quale riposerò da morto. E’ quell’inno, che penetra dentro il cuore, riempendo l’anima di brividi caldi.

 

L’onore Roberto, è una cosa speciale, è un termine che non si usa più. Non importa più a nessuno vivere con onore e per questo tanti non vivono più, ma sopravvivono.

La lealtà Roberto, è una cosa speciale, verso gli amici, verso la tua donna verso la tua comunità. E’ un marchio indelebile, che sopravvive al tuo corpo, perché rimane, come un filo invisibile, nel ricordo di tutti quelli che ti hanno conosciuto.

 

Il coraggio Roberto, è una cosa speciale, il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, il coraggio di ammettere di aver paura, il coraggio di vivere, e battersi per tutti coloro che sono indifesi e inermi, il coraggio di sollevare la spada per difenderli, a prezzo anche della propria vita.

 

Per me è stato più facile vivere secondo questi valori, c’era una guerra reale da combattere e il nemico era visibile, per te invece e per tutti quei figli che sono nati dai padri di quella guerra, il nemico è subdolo e insidioso, e sta riducendo questa umanità ad un insieme non di uomini, ma di animali che vivono solo per se stessi.

 

Nel silenzio di questa stanza mi chiedo se sono riuscito a farti capire che cosa, è veramente importante per un uomo, e nella dolcezza struggente dei ricordi capisco quanto io sia   stato fortunato.

 

Avevo la mia divisa e la mia penna sul cappello, e quando la virtù vacillava, nelle ore disperate, in cui altro ti appare importante, mi stringevo addosso quella divisa, toglievo il cappello e chiudendo gli occhi accarezzavo la mia penna, ricordando le note di quella tromba solitaria che nel cortile della caserma suonava il silenzio.

 

Ti prego, caro figlio mio, quando la morte arriverà per portarmi via con sé, cerca la tua divisa e la tua penna e vivi da uomo, per morire da uomo.

 

Solo così potrai sopravvivere per l’eternità, e di te rimarrà il ricordo di tutte le tue battaglia, quelle battaglie, che ognuno di noi è chiamato a combattere per difendere il supremo valore del senso della vita, per compiere il quale, siamo stati creati.

                                                                                Sergente Maggiore

                                                                   Guido Magliati

                                                                     Il tuo papà

 

Roberto, chiuse quei fogli e si guardò in giro, cercando la sua divisa e la sua penna, per combattere la sua battaglia.

Sollevò la cornetta e compose quel numero:

“pronto servizio tossicodipendenti, prego mi dica”

“Vorrei fissare un appuntamento….”

 

dedicato a Isabella

Questo sito è dedicato alla memoria di Isabella Luconi, nata a Messina il 20 Agosto 1957, morta a Cagliari il 15 Maggio 2012. 

 

Isabella, trasferitasi nel 1972 a Cagliari da Ancona, città di origine della sua famiglia, si è diplomata al liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari.

 

Ha conseguito il diploma di Assistente Sociale nel 1990 a Cagliari, la laurea in Scienze Sociali a Trieste nel 2004, e la laurea in Scienze Politiche a Cagliari nel 2011.

 

Ha partecipato a alcuni concorsi letterari, in Sardegna e nella Penisola, classificandosi sempre nelle prime posizioni.

 

Impegnata politicamente dall’età di 14 anni, ha militato nel Fronte della Gioventù, nel M.S.I.-D.N. e in Alleanza Nazionale.

 

E’ stata Assistente Sociale nel Comune di Assemini dal 1992.

Sposata nel 1979 con Roberto Aledda, hanno avuto un figlio, Marco.

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© Roberto Aledda robertoaledda@tiscali.it