isabella luconi
isabella luconi

ANNI 70’: PENSIERI, EMOZIONI E RICORDI.

 

IL PERCHE’ DI UNA SCELTA (relazione scritta nel 1999 per il movimento giovanile Azione Giovani)

 

Per la legge penale, un minore di anni 14 non è imputabile, ossia non è capace di intendere e di volere.

Eppure la maggior parte di noi, fece una scelta di militanza politica, appena tredicenne, ancora bambini in un corpo che si andava trasformando in quello di un adulto.

E forse, fu quell’essere ancora bambini, che costruì i sogni di una intera generazione, che scandì l’innocenza della nostra militanza, e ci impedì di armarci di chiavi inglesi per rompere la testa ai nostri avversari. Ed è proprio per questo che non condivido le analisi sociologiche che ricostruiscono in un’unica matrice il terrorismo nero e il terrorismo rosso, quest’ultimo nacque dalla militanza di sinistra, l’altro dall’emarginazione che la nostra militanza ne fece.

L’obiezione più frequente, per una scelta così precoce, è quella che a tredici anni, non può esserci consapevolezza e capacità di discernere, ma che nella scelta altri sono i fattori di influenza: gli amici, la famiglia, la scuola.

Ma non è così, o almeno non lo è stato per la maggior parte di noi.

Posso non ricordare a distanza di un trentennio, fatti ed avvenimenti, ma ho ancora chiarissima, l’esatta personale intuizione, che la mia interiorità era collocata nei valori, nei principi, nel DNA della Destra.

Non avevo e non frequentavo, amici di destra, altri erano i passatempi allora di moda, le feste i giochi di gruppo, le passeggiate nel viale principale della città, le canzoni di Battisti imparate a memoria, le prime cotte, l’amica del cuore.

Poi improvvisa dirompente, la porta dell’adolescenza si spalancò su di un altro mondo, quello della politica. E fu la politica di sinistra il mio primo approccio, con un invito a partecipare ad un “collettivo“. Immediato il senso di estraneità. L’imbarazzo per una promiscuità sessuale ostentata, l’abbigliamento omologo, quel definirsi tutti uguali, la mancanza di regole, quell’idea strana e bislacca secondo la quale
bisognava togliere al ricco non per donare al povero, ma per permettere a questo di prendere il posto del ricco. Conversazioni pseudo pisicoanalitiche, dove le teorie freudiane venivano collettivizzate e la pratica dell’amore libero era considerata una tecnica di psicoanalisi, per liberarsi dai tabù sessuali, che a sentire i compagni erano strati imposti da una società capitalista e castrante.

Il mio fu certamente, almeno inizialmente un rifiuto fisico, mentirei se affermassi che la mia fu una scelta culturale, non conoscevo Marx, né le teorie sulla dittatura del proletariato, non avevo la più pallida idea di cosa significasse capitalismo e mercato libero, ma avevo ben presente il senso fisico di estraneità nei confronti di quel gruppo di militanti, anzi per essere più esatti era un senso di repulsione.

Dopo quella traumatizzante esperienza del collettivo, sarei voluta tornare ai miei passatempi, ma ormai quella porta si era aperta, e la curiosità che è il meccanismo tipico della crescita nell’adolescenza, mi portò davanti al portone di ingresso della sede del M.S.I. Ero sola..

La sede era ubicata nella parte vecchia della città e il portone era di quelli tipici dei vecchi palazzi, in legno scuro, imponente, rovinato dal tempo, l’androne male illuminato, le scale strette, un piano poi un’altra porta, due le targhette: MSI – Fronte della Gioventù.

Qualcosa sul Msi la sapevo, o almeno conoscevo quello che i giornali e la televisione ne dicevano, ma mentre premevo il campanello mi chiedevo cosa fosse quel Fronte della Gioventù.

Mi fu aperta la porta, sono entrata, e sebbene nel corso degli anni sono fisicamente uscita, il mio cuore e la mia anima sono rimasti per sempre lì dentro. Tanto quanto mi era stato fisicamente estraneo l’approccio con il collettivo, tanto quanto percepii fisicamente di essere arrivata dove cuore e cervello mi avevano incosciamente portata, quel luogo era la traduzione fisica di quei sentimenti e di quelle
emozioni, allora confusi, ma che poi sarebbero diventati il senso della mia vita: ero di Destra, perché non avrei potuto essere altrimenti.

Iniziò così la mia militanza nel  Fronte della Gioventù, che io vissi sempre e fin dall’inizio come militanza nel MSI. Una delle attività più frequenti, e che ci vedavano tutti coinvolti erano i volantinaggi, unico sistema in quel tempo per far sentire la nostra voce.
Ricordo in particolare la prima esperienza. Pioveva a dirotto, e attendevamo sotto la pioggia l’uscita degli spettatori dal cinema, le ragazze con i volantini in mano, i ragazzi schierati a scudo intorno a noi, con tutti gli ombrelli aperti, per proteggere quei volantini così faticosamente ciclostilati.

E insieme alla pioggia penetrò nel cuore quel sentimento, che allora non sapevo che cos’era, quella cosa unica eccezionale irripetibile chiamata “cameratismo”.
Difficile descriverlo. Non è amicizia.
Si può essere camerati ma non amici. E’ l’equivalente emozionale del simbolo distintivo di una setta massonica. E ciò che mi permette senza conoscerti, di sentirti
vicino, di abbracciarti come se fossi l’amico di sempre, di guardarti negli occhi e dirti: non preoccuparti, camerata, adesso ci sono io vicino a te.



  

LA CAMPAGNA ELETTORALE

 

Credo che possa essere descritta e compresa in termini emozionali solo da chi ha condiviso la stessa esperienza. Ognuno di noi era chiamato a sostenere con la sua attività e la sua militanza, il Partito e
non i singoli candidati, e candidarsi non aveva come obiettivo l’ambizione di un potere personale, eccezion fatta ovviamente per i personaggi politici più noti, ma era riempire quelle liste, che spesso rimanevano a metà, era strappare il voto all’amico, ai genitori a qualche parente, era sfidare la società, ormai tutta intera di sinistra, era dare se stessi al Partito, senza nulla chiedere in cambio.

Allora non esisteva Internet, i giornali e la  TV ci ignoravano o davano la loro versione di parte, e quindi
gli unici mezzi di propaganda erano la macchina con gli altoparlanti, i volantini , i manifesti e i comizi.

La macchina, quasi sempre una cinquecento o una seicento, era un condensato motorio di
cameratismo a quattro ruote. Condividere per ore uno spazio ristretto, l’inno del partito fra un annuncio e l’altro, gli scherzi goliardici per allontanare la tensione: sono stati il collante di emozioni irripetibili.

Ma sicuramente ciò che rappresentò l’apice di quei momenti erano i comizi, termine diventato ormai arcaico e in disuso.Uno in particolare è rimasto nei miei ricordi: un comizio di Almirante, in un paesino
vicino ad Ancona, ancora più rosso della città capoluogo.

Tutti in macchina, tutti insieme ( giovani e adulti) per recarci al comizio. Il portabagagli pieno di bandiere, la cui asta era un po’ più robusta di quelle attuali, che si piegano al vento, sicuramente con un bell’effetto coreografico, ma poco utili se dovessero servire, come servivano allora per difendersi dagli assalti dei gruppi avversari.

Fu un comizio al “quadrato”.

Quadrata la piazza, quadrato il palco. Quadrato il servizio d’ordine intorno al palco, quadrata la disposizione dei militanti e degli iscritti. Il palco aveva infatti una posizione quasi centrale per evitare di avere le spalle scoperte.Quadrato, lo spiegamento delle forze di polizia intorno a noi.

Quadrata la folla urlante dei comunisti, che la polizia teneva separati da noi. E dai lati estremi del quadrato un solo grido: “ Fascisti carogne tornate nelle fogne “.

E dal quadrato interno un’unica risposta “ il comunismo non passerà”. E più diventava stretto lo spazio, per la pressione esterna, più alte e più forti le parole di Almirante, il grido di libertà che sedimentò l’odio politico contro il comunismo, la voglia di vincere, la convinzione di essere nel giusto, l’amore per quel partito vilipeso, odiato e deriso, e per il quale tutti noi eravamo disposti a dare la vita.

Oggi tutto ciò non esiste più, ma questo non vuole essere un giudizio di merito su alleanza Nazionale, che può e deve essere un momento politico diverso e più consono allo scenario politico attuale.

Non era meglio il Movimento sociale, né era meglio il Fronte della Gioventù: era solo diverso il senso profondo di appartenenza, che trascendeva le singole persone,
i meriti e demeriti dei singoli onorevoli, i quali erano negativi o positivi tanto quanto lo sono quelli di oggi.

Ciò che è cambiato è l’imputazione del credo politico. Allora si credeva in una idea, oggi si crede nel risultato che quella idea può avere: se il risultato è spendibile e vantaggioso sul piano personale, l’idea è buona, altrimenti è censurabile.

Troppe le idee che sono state censurate, e un partito senza ideali è come un corpo senza anima, il suo destino è la morte.

 

L’ESPERIENZA DI CAGLIARI

 

L’ uomo era già sbarcato sulla luna, i Beatles si erano già divisi e io arrivai a Cagliari.

Qualunque adolescente abbia fatto una esperienza di allontanamento dal proprio gruppo, conosce quanto questa sia dolorosa, quanto astio si prova per il nuovo ambiente e quanta nostalgia per quello che si è lasciato.

Tutto il viaggio in treno, da Ancona a Civitavecchia, lo passai affacciata al finestrino, sperando che la velocità del mezzo diminuisse, per non allontanarmi dalla mia vita, dai miei camerati, dal mio Partito, come se questo fosse solo ad Ancona. Ma la misura delle emozioni a quell’età è la misura del proprio
ambito territoriale, al di fuori di esso è il nulla.
Il viaggio in nave in pieno ferragosto, con quegli odori nausabondi di vomito e sudore. Il tragitto Olbia- Cagliari in treno, quel paesaggio così arido così deserto così triste, e quella lingua che non capivo, che non era la mia e che nei primi tempi accentuo quella sensazione di estraneità che leggevo negli occhi dei Sardi, per i quali ero una “strangia”.

E fu così che si radicò nel mio cuore un’altra delle mie certezze: l’amore per l’Italia, che tutta e unica doveva essere, e che ancora oggi mi impedisce di condividere, l’dea che possano esserci più Italie. Quell’idea di un Italia unita, che mi fa amare quel sud che la storia ha trasformato in un paese 
dimenticato, arida terra, spesso schiacciata da arroganza e soprusi e che per sopravvivere si è data un altro stato, un altro potere, che con il tempo è diventato sempre più forte, contrapposto a quello stato assente che altro non ha saputo fare che non assistenzialismo.

Quella terra che Bossi chiede a gran voce di abbandonare, quel Bossi che permette ai suoi padani di appendere sulla porta delle loro pasciute case il cartello “ non si affitta ai meridionali”.

Ma noi negli anni 70, eravamo presenti in quella terra, era la nostra forza, il nostro bacino elettorale, e se non siamo spariti dalla scena politica è stato anche grazie alla passione e all’impegno della nostra gente del Sud.

Vale la pena, per un patto elettorale, perdere tutto ciò?

 

 LA MILITANZA A SCUOLA

 Se ad Ancona, fui io ad avvicinarmi al Partito, a Cagliari fu il Fronte ad avvicinarsi a me.

Non avevo chiesto e non volevo sapere dove era la sede del Partito, ancora troppo ferita per quel distacco, non volevo sentir più parlare di politica, ma non avevo messo in conto la scuola alla quale mi ero iscritta: Il liceo scientifico Pacinotti, fisicamente vicino a facoltà di lettere, e oltre agli studenti,
quasi tutti dichiaratamente di sinistra, anche gli insegnanti professavano il loro allineamento culturale, se di cultura si può parlare, al regime, e tutti insieme professavano il loro antifascismo.

A capo di questa allegra compagnia di lestofanti, un preside che per la sua codardia e incapacità era stato soprannominato “Don Abbondio”.

Un piccolo sparuto gruppo di ragazzi, era stato etichettato, e in realtà lo erano, come attivisti del Fronte della Gioventù, la loro militanza era una sfida continua e il loro coraggio permise che la voce della Destra non venisse del tutto cancellata.

Io ho un preciso ricordo, numerico e nominale di quanti eravamo,, ma a sentire i racconti di molti adulti di oggi, sembra che ci fossero anche loro. Chissà dov’erano.

Come ho detto prima, a quei pochi non mancava certamente il coraggio, stretti in gruppo, assediati da una moltitudine di studenti, costretti a salire sulle spalle dei camerati, per far sentire la loro voce la loro parola, il loro grido di libertà.

Non potei più resistere e ricominciai a frequentare e a fare attività politica. Il fiduciario di allora mi portò nella sede del Fronte della Gioventù, in Vico San Lucifero.

Caro vecchio Fronte della Gioventù, vorrei essere un poeta per descrivere quegli anni, per rendere attraverso le parole ciò che ha rappresentato per tutti noi .

Sarebbe facile identificare la nostalgia per quegli anni come la nostalgia per gli anni
della giovinezza, ma non è così. La nostalgia è un sentimento che si prova per qualcosa che non c’è più, che non può tornare. Io non ho nostalgia, perché lo sento ancora vivo, parte di me e
del mio modo di essere: ciò che cambia è la materia, gli anni non si possono
cancellare, ma lo spirito non ha età e non mostra attraverso le rughe i segni del tempo

L’esperienza del Fronte della gioventù fu molto diversa dalla esperienza di Ancona.

Il partito fisicamente non c’era, Vico, come affettuosamente lo chiamavamo ,era esclusivamente la sede dei ragazzi, del loro mondo, delle loro lotte, della loro militanza. Ai più grandi il compito di mantenere nel bene e nel male, i rapporti con il partito, a loro il merito di averci tenuti lontani dalle lotte interne, dagli arrivismi e personalismi, presenti allora come ora.

Molte le teste calde, gli “arditi”, i “duri e puri”, ai Segretari del Fronte della Gioventù un ringraziamento particolare per aver impedito, a molti di noi, di fare una brutta fine,

Erano ragazzi, seri consapevoli dei rischi e della responsabilità che avevano nei confronti di tanti adolescenti, e non hanno mai barattato una loro finta immagine di coraggio per ottenere l’ammirazione di quegli adolescenti. Non tutti, sono rimasti nel partito: peccato.

 

IL CARCERE

Furono anni duri, anni di sangue , anni di piombo, come li hanno definiti.

L’emarginazione era il nostro pane quotidiano, il rischio un amico con il quale convivere, ma noi capovolgendo l’ordine dei termini, riuscimmo ad essere una forza, una Gioventù, che fece Fronte contro il Comunismo. Ma non fu sufficiente, la caccia al Fascista era aperta e ucciderne uno non era reato. Quella caccia e quel clima mi portarono un giorno di tanti anni fa, insieme ad altri sei camerati,
in galera.

Inutile raccontare i fatti che portarono a ciò, erano fatti sempre uguali. Noi pochi , loro molti ma noi i “pericolosi da eliminare”. Ero riuscita a sfuggire, ma la polizia, quella polizia che tanto abbiamo difeso girava con la volante per le vie adiacenti al Pacinotti, insieme con loro in macchina il capo della sinistra studentesca per essere sicuri di identificarci. Insieme polizia e sinistra per dare la caccia a dei ragazzi poco più che adolescenti il cui unico torto era quello di essere di Destra.

E’ così alle 14 eravamo tutti in questura, 7 come sempre, e alle 14.15 era già partito il Fax per Roma: CAGLIARI, ARRESTATI 7 NEOFASCISTI. I giornalisti come avvoltoi, nel corridoio della questura aspettavano, la nostra uscita, per scrivere di noi, per fotografarci, per dire al mondo, che ancora una volta 7 ragazzi, 7 fascisti avevano picchiato e malmenato 800 studenti che democraticamente non avevano concesso loro la parola durante l’assemblea.

Io ero ancora minorenne, ma la tutela riservata ai minorenni per i fascisti non esisteva, e così foto sul giornale, nome e cognome, e il carcere comune.

Cinque giorni dentro una cella, sicuramente pochi, ma incisi uno per uno nei miei ricordi. La mia
rabbia, il mio odio , la mia disperazione, al pensiero che la mia famiglia non mi avrebbe permesso più di fare politica: solo quello era il mio dolore.

E verso sera, quando il rumore del silenzio degli altri detenuti, rimaneva la tua unica compagnia, chiesi a me stessa : “ ne valeva la pena?”

E il cuore rispose accelerando il battito, fremendo nel fuoco della passione, che uno, dieci, cento giorni di galera, la vita stessa, erano ciò che tutti noi eravamo disposti a pagare, per cercare di salvare un mondo che scivolava sempre più nella china del bieco materialismo, dove Comunismo e Capitalismo, sembravano ormai gli unici a scriverne, in modo indelebile la sua storia.

Ed è proprio grazie ai tanti 10 giorni di ognuno di noi, e alla vita donata all’ideale più alto, di tanti nostri
coetanei, che quella storia non è stata scritta. Ed è a loro dal più profondo del cuore, in ricordo di quegli anni bui che dedico queste emozioni e questi ricordi.

Ai ragazzi di oggi dico invece di non ricordare. Oggi è un’altra vita,un altro tempo, un’altra politica.

Altri i modi per costruire quella Destra Giovanile, che allora fu vincente, perché credeva in se stessa, nella propria anima, nelle proprie idee, nei propri valori.

Anche per Voi arriverà il momento di interrogare la Vostra anima e di chiedervi se ne valeva la pena, e se la risposta sarà la stessa , avrete vinto, e noi avremo vinto con voi. E allora con un’unica voce, un unico sentimento, un’unica emozione, oggi come ieri, cercheremo di rendere più bella questa nostra piccola umanità.

 

dedicato a Isabella

Questo sito è dedicato alla memoria di Isabella Luconi, nata a Messina il 20 Agosto 1957, morta a Cagliari il 15 Maggio 2012. 

 

Isabella, trasferitasi nel 1972 a Cagliari da Ancona, città di origine della sua famiglia, si è diplomata al liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari.

 

Ha conseguito il diploma di Assistente Sociale nel 1990 a Cagliari, la laurea in Scienze Sociali a Trieste nel 2004, e la laurea in Scienze Politiche a Cagliari nel 2011.

 

Ha partecipato a alcuni concorsi letterari, in Sardegna e nella Penisola, classificandosi sempre nelle prime posizioni.

 

Impegnata politicamente dall’età di 14 anni, ha militato nel Fronte della Gioventù, nel M.S.I.-D.N. e in Alleanza Nazionale.

 

E’ stata Assistente Sociale nel Comune di Assemini dal 1992.

Sposata nel 1979 con Roberto Aledda, hanno avuto un figlio, Marco.

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