isabella luconi
isabella luconi

LE NOTE DELL’ANIMA

Il cielo era così azzurro che a guardarlo Michele si sentiva male.

Non gli piacevano, i colori intensi, la luce, il sole, tutto ciò che poteva esprimere gioia offendeva la sua anima triste e torturata da uno spasmo senza fine.

Anche oggi era seduto sulla vecchia poltrona di fronte alla finestra, come sempre, come ieri, come domani. Rimaneva ore immobile, a guardare quella montagna, la sua montagna. Madre e matrigna, provava per Lei un odio profondo, un rancore infinito.

Ah se potessi farti scomparire nel nulla, se potessi bruciare i tuoi alberi, se potessi uccidere tutti gli esseri che si cibano di te, che corrono liberi e vivi nei tuoi sentieri.

Dio se potessi, ma non posso, perché Tu sei con lei, la nutri, la scaldi, la inondi di luce.

Dio, quanto ancora dobbiamo pagare in dolore e in tormento per essere amati da Te come tu ami la terra che hai creato ?

Dio infinito e ingiusto perdonami, perché io non ti perdono.

Pochi gli attimi in cui la sua anima si rasserenava, in cui dimenticava il tormento in cui era precipitato, erano gli attimi in cui il sonno e l’oblio vincevano sulla realtà e Michele riusciva a ricordare i suoi giorni felici, riusciva a sentire l’eco della sua musica e a udire il respiro del pubblico che precedeva l’attimo di silenzio profondo.

Michele sul palcoscenico con il suo violino, che piano piano si animava di vita e raccontava al mondo la melodia della sua anima, e le note scorrevano come linfa vitale e crescevano dentro di lui, e parlavano e sussurravano e poi gridavano e poi ancora e ancora musica e quando l’attimo sublime finiva e la nota sospesa cadeva, Lui la raccoglieva e con garbo la offriva al suo pubblico-

Ricordava il fragore dell’applauso, e tutti gli spettatori in piedi che gridavano in un sol coro come la plebe nei colossei romani che alzava il pollice verso l’alto per chiedere la vita, gridavano “ bis – bis”, volevano ancora sentire la vita, volevano ancora che il loro cuore tremasse e vibrasse, vergine ad ogni altro rumore, ma aperto solo a quelle note che risvegliavano i sopiti aneliti delle loro passioni nascoste.

Ma Lui non ascoltava, non poteva, non voleva, unica era la sua esibizione.

E si inchinava gentile verso quel pubblico adorante, e si inchinava di nuovo e stringendo al cuore il suo violino mormorava un timido grazie e furtivo come un ladro si allontanava dalla scena, portando via con se un pizzico del loro cuore.

Ricordava Michele, la sua vita di allora, e nel ricordo la lacrima si fermava sulla gota protesa verso l’alto in quell’unico sorriso che Lui si concedeva, poi nello spasmo del dolore, la gota distesa lasciava scivolare quella lacrima e tutte le altre lacrime, pungenti come pungente era il dolore che gli lacerava l’anima.

Ricordava Michele, ricordava la mano gentile che sfiorava il suo volto, che gli prendeva il violino e in silenzio lo prendeva per mano e aspettava paziente che le ultime note defluissero dal suo cuore per averlo tutto per se.

Veronica, tenera e calda come un panino appena sfornato, Veronica, sua moglie, la sua compagna, la sua amica la sua amante, Veronica con un naso piccolo piccolo che si arricciava birichino quando sorrideva.

Dio quanto era bella, si perdeva dentro i suoi occhi, azzurri come il cielo di quella montagna che tanto amava e guardandola con tutto l’amore di cui era capace arrivava fino al suo cuore e lo sentiva battere per Lui, e nel delirio di onnipotenza di tutti gli esseri umani appagati e felici, pensava che tutto questo gli era dovuto e che mai sarebbe finito, come un attimo eterno, sospeso in attesa del niente che riusciva solo ad immaginare, perché era il presente che importava.

Se solo avesse saputo l’orrendo destino, se solo avesse immaginato, mai avrebbe goduto di quella felicità. Questo solo riconosceva come merito a quel Dio che non amava più, non aveva dato agli uomini la possibilità di conoscere il loro futuro.

Michele riaprì gli occhi, l’ attimo dei ricordi teneri e fuggenti era terminato e la montagna era ancora lì davanti ai suoi occhi, brutta e triste nel crepuscolo incipiente.

Fili di nuvole si intrecciavano sulla sua sommità, e una nebbia leggera avvolgeva come un sospiro dell’anima, quelle rocce e quegli alberi, che muti e beffardi erano stati testimoni di quanto gli era accaduto.

Ricordava Michele, e verso sera il ricordo si spalmava come burro, e diventava reale e presente, ogni volta vissuto e ogni volta odiato.

Un anno fa, solo dodici mesi prima, Lui era Michele il musicista, Michele sposato con Veronica, Michele amato da tutti, Michele dolce e gentile, Michele che viveva per il suo violino. Oggi era Michele solo e dimenticato, Michele senza più Veronica, Michele cattivo e amaro senza più il suo violino.

Dodici mesi prima, una mattina come tante altre: Veronica in cucina, il sole fuori dalla porta e dentro la loro anima, il verde intenso degli alberi, il profumo promesso di una primavera quasi vicina e la voglia di uscire per confondersi con quella montagna, per amarla e per conquistarla.

Veronica non aveva voluto seguirlo, doveva finire di preparare lo strudel, e cosi Michele, aveva indossato gli scarponi, la giacca a vento e dentro lo zaino aveva messo il suo violino.

Il suo Lino così lo chiamava, quel nome era il suo segreto, nessuno lo sapeva, neanche Veronica.

Lino il suo amico più fedele, aveva cominciato a chiamarlo così quando suo padre lo rimproverava perché stava sempre a suonare e non faceva i compiti e non aiutava la mamma , e quando le bottiglie di birra riempivano il bidone e la voce di suo padre diventava una nota stonata, Michele si nascondeva sotto il letto, abbracciato al suo amico e gli sussurra “non ti preoccupare Lino, se non ci facciamo vedere non potrà prenderci a calci e quando saremo un po’ più grandi ce ne’ andremo.”

Ma non era stato necessario andare via, aveva fatto prima suo padre, ruzzolando dalle scale se n’era andato per sempre, e con lui se ne erano andati dolori e dispiaceri, finalmente Lui, Lino e la sua mamma potevano vivere sereni e sereni vissero per tanti anni.

Lino era rimasto sempre con Lui, e quando Michele scalava la montagna lo portava con sè e insieme cercavano un angolo tranquillo, in alto e ogni volta sempre più in alto, perché la sua musica si arrampicasse verso il cielo per arrivare fino a quel Dio che Lui tanto amava e che ora odiava da più profondo del cuore.

Questa volta Michele non fece la strada di sempre, ma si avventurò in un sentiero nuovo che non conosceva, impervio e faticoso non era segnato da altri passaggi.

Pensava che non sarebbe riuscito ad arrivare in cima ma poi ad un tratto si spalancò davanti a Lui uno spettacolo meraviglioso: una piccolissima radura circondata da alberi alti e possenti.

In mezzo a quella radura una piccola pietra dove Michele si sedette.

Lo zaino in terra, vuoto perché Lino era già sulla sua spalla.

Michele rimase in silenzio ad ascoltare la musica della natura. Era una musica dolce e leggera, gli alberi si muovevano piano piano, sussurrando nel vento aneliti di libertà, e libere e forti le aquile volavano più in alto della montagna e il fruscio delle loro ali era un suono che Michele poteva solo immaginare.

Michele apri il suo cuore a quella musica e pizzicando piano le corde del suo violino cominciò a tessere una musica dolce e senza affanno, una musica tenera come il suo amore per la vita.

Come sempre chiuse gli occhi e diventò una parte di quella montagna, di quella musica di quel frusciare, non vide il cambiamento repentino del tempo come spesso succede in montagna, il sole che scompare, le nubi che da bianche diventano blu, gli alberi improvvisamente scossi da una vento gelido.

Michele non aprì gli occhi ma continuò a suonare e percependo il crescendo di quei cambiamenti si era anche lui sintonizzato con quella nuova musica, aveva aumentato il tono e le note ora vibravano di vita propria e rappresentavano un rumore distinto in quel concerto della natura.

Non si era accorto Michele che una nota più forte delle altre aveva incrinato un costone di neve, non si era accorto Michele di quel ruzzolare, ne sentì solo il rumore e il fragore che penetrò nella sua anima facendogli spalancare gli occhi di fronte a quella massa di neve che in un attimo lo inghiottì, sbattendolo sopra quella roccia.

Lino gli sfuggì di mano lasciandolo solo, un dolore lancinante alla schiena e al braccio poi il nulla, nero come la notte incominciò il suo incubo, da cui non si sarebbe più svegliato come Michele il musicista, ma come Michele lo storpio.

Michele che non voleva ascoltare le parole dei dottori, le loro false e ipocrite parole che servivano solo per sfuggire da quella terribile diagnosi: lesione della colonna vertebrale, perdita dell’uso delle gambe e del braccio destro. Cercavano di spiegargli che avrebbe potuto vivere una buona vita, creandosi altri interessi e altre opportunità.

Lino e Veronica se ne erano andati l’uno sommerso dalla neve l’altra sommersa dall’ipocrita dolore di non avere più a fianco il suo Michele, perché l’altro, quello invalido, quello storpio, non le piaceva più.

Anche oggi Michele lo storpio aveva compiuto il rito del ricordo, anche oggi aveva colmato il suo cuore di rabbia e dolore, anche oggi aveva urlato a quel Dio ingiusto che non avrebbe più suonato per Lui, che la sua musica non sarebbe più arrivata in cielo.

Ma oggi, era un giorno speciale, era passato esattamente un anno dal quel giorno che gli aveva cambiato la vita e improvvisamente Michele sentì il desiderio di uscire.

Ma quel desiderio di uscire non era un ritorno alla vita, Michele non voleva più vivere, voleva spegnere il battito del suo cuore, che era ormai l’unica musica che sentiva, voleva che il silenzio fosse totale, e che più nulla e nessuno potesse ricordargli che la vita era un’altra cosa e non quella che Lui stava vivendo.

Con fatica percorse il sentiero che dalla sua casa portava verso la montagna, doveva fermarsi spesso per togliere le foglie e i rametti che si intrecciavano nelle ruote della carrozzina. Non sarebbe stato difficile, al primo dirupo avrebbe continuato la sua corsa e sarebbe precipitato finalmente nel nulla.

Il nulla, l’estasi dell’anima, la pace dei sensi, Michele sorrideva mentre continuava il suo faticoso cammino, sorrideva pensando a come si sarebbe ridotta quella carrozzina : vedeva con soddisfazione come si sarebbe accartocciata sbattendo contro le rocce, liberando finalmente il suo corpo da quella schiavitù, e la sua anima avrebbe finalmente ritrovato ll suo amico Lino, e all’anima non servivano le braccia per suonare.

Il pensiero era così dolce e rassicurante che Michele si concesse una pausa, fermò la carrozzina sotto un albero per guardare un’ultima volta il tramonto della sua montagna.

Rapidi e felici due uccellini si spostavano da un ramo all’altro dell’albero sotto cui stava Michele, e fiocchi di neve si scioglievano nel loro saltellare, scivolando sul viso di Michele, bagnando le sue labbra, cancellando il sapore salato delle sue lacrime.

Michele, guardò la montagna, il sole che scompariva dietro la sua vetta, la miriade di colori che sembravano vivere di vita propria come la sua musica, e in quello spettacolo la sua anima lacera ebbe un sussultò, senza quasi accorgersene Michele tornò con la sua mente a comporre la musica in un caleidoscopio di colori, era come se stesse suonando, anzi il fatto che la musica non potesse uscire dalla sua anima, sembrava renderla ancora più intensa.

Rimase incantato a guardare quella vetta che si stagliava netta nel cielo e muto e ansante compose una melodia che scivolò sulla neve per correre verso la vita.

La montagna che gli aveva tolto la vita, ora gliela restituiva.

Con cautela Michele ripercorse il sentiero, timoroso di perdere quell’attimo in cui aveva compreso il perché della sua sofferenza e l’infinita bontà di quel Dio che per lungo tempo aveva odiato.

Entrando in casa accese tutte le luci, e con loro sparì l’angoscia e il tormento della notte e dei suoi incubi.

Scrisse quelle note che aveva dentro il cuore, e le sentì cantare, anche Lino era vicino a Lui, spezzato a metà, con le corde piegate, ma era sempre il suo Lino, e nulla e nessuno poteva cancellare quello che c’era stato fra di loro.

Ora qualcun altro avrebbe suonato la sua musica, quella musica che nasceva dal dolore e che avrebbe restituito al mondo le note della sua anima.

dedicato a Isabella

Questo sito è dedicato alla memoria di Isabella Luconi, nata a Messina il 20 Agosto 1957, morta a Cagliari il 15 Maggio 2012. 

 

Isabella, trasferitasi nel 1972 a Cagliari da Ancona, città di origine della sua famiglia, si è diplomata al liceo Scientifico Pacinotti di Cagliari.

 

Ha conseguito il diploma di Assistente Sociale nel 1990 a Cagliari, la laurea in Scienze Sociali a Trieste nel 2004, e la laurea in Scienze Politiche a Cagliari nel 2011.

 

Ha partecipato a alcuni concorsi letterari, in Sardegna e nella Penisola, classificandosi sempre nelle prime posizioni.

 

Impegnata politicamente dall’età di 14 anni, ha militato nel Fronte della Gioventù, nel M.S.I.-D.N. e in Alleanza Nazionale.

 

E’ stata Assistente Sociale nel Comune di Assemini dal 1992.

Sposata nel 1979 con Roberto Aledda, hanno avuto un figlio, Marco.

Stampa | Mappa del sito
© Roberto Aledda robertoaledda@tiscali.it